I panzerotti, oltre a come trattenere il respiro per non rischiare di veder volare via il bottone dei jeans come il tappo dello Champagne migliore, ti insegnano altre virtù che risulta fondamentale aver conservato nella tasca di quel jeans sopravvissuto per affrontare la quotidianità.
Prima di tutto l’attesa. Quell’estranea da cui tutti nel frettoloso mondo odierno rifuggono. Lo scorrere lento del tempo che permette alle cose di risolversi (e all’impasto di crescere soffice e lievitato).
Poi la collaborazione. Perché quando l’olio nella padella è pronto a casa mia si scatena una vera e propria catena di lavoro che il metodo fordista ci farebbe un baffo. Ognuno al suo posto e al mio tre scatenate l’inferno! C’è chi stende le palline d’impasto, chi farcisce i panzerotti e chi li frigge.
Ed è qui che scopri i due passaggi più importanti: l’attenzione e la speranza. Perché devi utilizzare un’attenzione chirurgica nel richiudere quel fazzoletto di pasta che conserva un tesoro prezioso fatto di pomodoro e mozzarella.
E poi non ti resta che sperare. Può sembrar strano ma è questo che si fa mentre i panzerotti, calati nell’olio bollente, con un sfrigolio di sottofondo assumono il loro distintivo color dorato. Devi sperare che non si aprano. Che forse non significherà nulla se non hai mai vissuto quell’attesa con le dita incrociate dietro la schiena sperando di aver raggiunto il giusto compromesso tra un impasto troppo spesso e uno troppo sottile. Ma se hai vissuto quell’attesa colma di speranza sai bene cosa significhi.
Ed in fine eccoli lì. Solitamente sono prodotti in una quantità smisurata rispetto al numero di commensali, ma comunque non ne avanza neanche uno. È una strana magia questa. Tu credi di volerne mangiare solo due e poi ti ritrovi ad aver perso il conto. Ma in realtà sappiamo che non lo fai di proposito: i panzerotti dopotutto sono come l’amore, non si possono mica misurare.
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